“Quando il passato si attacca al presente con i suoi artigli” di Roberta Semeraro Sono trascorsi più di quarant’anni da quando l’artista Federica Marangoni denunciava la sua condizione di donna e in assoluto la tragicità della condizione umana, contrastando quei principi che la rivoluzione culturale degli anni ’60 pretendeva scardinare. Ed è questa l’immagine che rimarrà nell’arte della bella e intelligente artista veneziana mentre s’incammina con un grande baule sulle spalle (1970) contenente frammenti del proprio corpo o un’ala del proprio angelo custode, consapevole che la vita è un “sogno irrealizzabile” o meglio “un volo impossibile”. Tolleranza, libertà, democrazia, uguaglianza; utopie dell’epoca contemporanea, illusioni che si tramandano da una generazione all’altra senza via di soluzione ma con una continuità che è diventata il filo conduttore della nostra esistenza. Problematiche che affliggono l’uomo moderno e di cui è intrisa l’arte contemporanea, alle quali la Marangoni si è avvicinata quando ancora vi era un ottimismo diffuso nella nuova realtà alimentato da un’irrefrenabile desiderio da parte dell’uomo di sperimentare sempre più i mezzi di comunicazione, con la convinzione che, con la caduta delle barriere dell’informazione, la vita sarebbe stata migliore. E la Marangoni di quella nuova realtà ha saputo coglierne i connotati formali senza mai lasciarsi incantare dai mezzi, utilizzando già dalla seconda metà degli anni ’60 materiali innovativi come fyberglass, poliestere, perspex, resine, monitor elettronici che sono diventati topoi dei manufatti artistici contemporanei. Nascono così intorno a quegli anni e si affermano le icone del linguaggio artistico della Marangoni: farfalle, libri della memoria, arcobaleni, aquiloni, scale e gabbie, un universo di segni che diventano simboli di quelle illusioni e di quei sogni negati. Non a caso l’artista gode di fama e stima presso le menti più ardite dell’arte, ha intrattenuto veri e propri sodalizi intellettuali con pionieri dei nuovi linguaggi tecnologici come il coreano Nam June Paik. Viaggia nel mondo e soprattutto si ferma a New York divenuta capitale mondiale dell’arte dalla seconda metà del XX secolo. In questa affascinante gabbia di cemento e luci, la Marangoni come una delle sue farfalle di vetro che non possono dischiudere le ali per librarsi in volo, lascia il segno poetico della sua inconfondibile presenza. Una presenza che è anche il prodotto di un senso femmineo delle cose moltiplicato per una grande maestria e conoscenza del fare le cose che le deriva dall’antica saggezza della tradizione dell’artigianato veneziano. Nata e cresciuta in un palcoscenico naturale di acqua e luce, l’artista manipolando appunto la luce riesce a coglierne i suoi impalpabili riflessi dalle immagini elettroniche ai neon colorati. E sono soprattutto questi ultimi a caricarsi di valenze fortemente espressive nel suo lavoro, tracciando semplici parole prese dal gergo comune dei media e divenute metafore dell’immaginario collettivo come people, tolerance, no more, humanity. Che le arti visive dall’arte concettuale in poi (e anche prima dell’arte concettuale!) abbiano preso in prestito la scrittura non è una novità, ma la sorpresa nella produzione artistica della Marangoni è che le parole e le luci fanno sempre da contrappunto musicale alle forme o alle immagini come a volerne incrociare il significato sottolineandone il rapporto melodico. Nel lavoro dell’artista veneziana il significante non può prescindere mai dal significato, ed è proprio ubbidendo a questo imperativo etico che l’opera sconfina nello spazio modellandolo. Non a caso la Marangoni costruisce opere e installazioni creando una sorta di luoghi dell’utopia, di spazi della riflessione portando così a compimento la grande lezione delle avanguardie artistiche del Novecento che liberarono l’arte dai limiti del supporto materico. L’artista allestisce le sue mostre come esperienze estetiche dove lo spettatore diventa fruitore dell’opera e ne viene irradiato dalla sua luce o ne riceve il suo suono. Nella rassegna di Brufa l’interrelazione tra le opere, gli ambienti che le ospitano, l’artista e i visitatori è evidenziato dal titolo stesso “Filo conduttore”. Come la bella Arianna figlia di Minosse diede un filo all'innamorato Teseo per uscire dal labirinto così l’artista veneta offre allo spettatore il filo conduttore per non perdersi nei meandri dell’arte. Il filo di neon della Marangoni che impedisce idealmente il volo all’aquilone posto all’esterno, riconduce lo spettatore all’interno dello spazio espositivo soffermandosi sulle singole opere come per spiegargli perché quel volo è sempre stato ed è tutt’oggi impossibile. Una bobina di vetro massiccio con frammenti di vetro rosso e neon posta in una gabbia di ferro, dall’inquietante titolo Freiheit riporta la memoria indietro nel tempo al 1994, anno in cui l’artista ideò la sua prima versione dell’opera in ricordo del fatto di cronaca accaduto a Berlino. Prima della caduta del muro di Berlino e precisamente nell’anno 1963, molti tedeschi della Berlino Est trovarono la morte nel tentativo di raggiungere la libertà in uno Stato democratico superando il confine e nascondendosi nelle enormi bobine che servivano a trasportare i cavi elettrici. Quest’impossibilità di sottrarsi al crudele destino sembra ripetersi ogni giorno come dimostrano le tre composizioni fotografiche dipinte con tecnica mista dai titoli No- Miracles, Escape e Humanity che evidenziano come la mancanza di libertà, la lotta per la sopravvivenza e l’odio razziale che semina la guerra si perpetuino in civiltà diverse e in ogni parte del mondo dai bambini maltruniti e abbandonati dell’Africa, alla donna costretta a celarsi dietro al burqa. E in particolare questo sguardo offeso e silenzioso della donna con il burqa sembra ricordare che “il passato si attacca al presente con i suoi artigli” impedendo all’aquilone di volare. In Afghanistan “Quando la neve si scioglieva e iniziavano le piogge primaverili, ogni bambino e ragazzo di Kabul poteva esibire sulle dita una serie di tagli orizzontali, stigmate dei combattimenti con gli aquiloni” racconta Amir protagonista del romanzo “Il cacciatore di aquiloni” scritto nel 2003 da Khaled Hosseini. La tradizionale competizione del volo degli aquiloni, vietata dai Talebani sino a tempi recenti rappresenta nel best seller di Hosseini il volo impossibile del popolo afgano verso la libertà. In particolare l’aquilone diventa l’emblema di vittoria e il popolo afghano la vittima innocente di un sacrificio che continua a compiersi nei nostri giorni. "Il tema dell'Aquilone é presente nel mio lavoro fin dagli anni '80 in vari materiali e sempre con il filo di luce al neon, è il simbolo del "sogno" dell'uomo trattenuto alla terra come un mito irrealizzabile, è l'angelo caduto, è in questo caso un progetto impossibile dove la leggerezza è stata sostituita dalla materia pesante e sorda, è il sogno di Icaro" dichiara Federica Marangoni descrivendo il suo imponente aquilone di Brufa poggiante su un manufatto in pietra serena locale. Ma anche il piccolo e fragile aquilone di vetro esposto all’interno della sala sembra essersi cristallizzato dal racconto di Amir come in un incubo tagliente con il quale è facile ferirsi. Amir l'io narrante del romanzo, è un ragazzo afghano di etnia Pashtun il suo coprotagonista è Hassan, di etnia hazara, che insieme al padre Alì presta servizio nella casa di Amir. Entrambi in qualche modo saranno perseguitati dalla follia razzista del loro coetaneo Assef che ispirandosi ad Hitler, diventa poi un terribile guerriero talebano. La mano di vetro realizzata da un calco della mano dell’artista implora invano Tolerance e ancora ritornano in Escape mani stigmatizzate di chissà quante migliaia di cacciatori d’aquiloni dispersi nel mondo e nella storia martiri della violenza. La farfalla partorita da un utero virtuale è finita nella gabbia di questa nuova e temibile realtà, la stessa fine ha fatto l’angelo innamorato di se stesso che ha perso di vista i propri limiti ed è volato troppo in alto tanto da scottarsi, bruciarsi un’ala e precipitare a terra e finire così nel baule della memoria. In questa nuova realtà, che non è poi tanto diversa da quelle precedenti dove il corso degli eventi si ripete inesorabilmente, l’arte si aggroviglia nel tentativo di dare risposte, spiegazioni e altrettante soluzioni formali ad un caos che non potrà mai essere riportato all’ordine. E di questa verità l’artista Marangoni è a conoscenza già da tanto tempo, tant’è vero che molti anni fa per elevare i suoi pensieri e le sue aspettative ha costruito una scala di luce. In un mondo dove il volo è solo un’illusione, Federica ha il merito di aver scelto una coerenza sustanziale portandosi addosso per una vita il peso della denuncia della verità che può avere il coraggio di fare solo una donna, rimasta fedele a se stessa. Gli aquiloni son tornati a volare Roberta Semeraro