Un'amicizia nata a Domus nel 1969— L'artista e designer veneziana Federica Marangoni ripercorre le tappe della sua lunga amicizia con Pierre Restany: dal primo incontro a Milano, nella redazione di Domus, fino alla morte del padre del Nouveau Realisme, avvenuta a Parigi nel 2003. An interview from Venezia by Carlo Biasia Dal primo incontro nel 1969, nella redazione di Domus, al giorno della sua morte a Parigi, il 29 maggio 2003, l'amicizia trentennale tra l'artista e designer veneziana Federica Marangoni e Pierre Restany ("uomo colto, geniale e ironico") è stata sempre improntata a un continuo e reciproco scambio professionale, oltre che di stima e affetto. È Pierre che introduce la giovane artista negli ambienti delle gallerie milanesi (come quella di Guido Lenoci) ed è sempre con Pierre che Federica si reca a Tokyo per esporre la sua opera all'Hara Museum. Insieme, presentano il libro Elettronica, madre di un Sogno Umanistico al Guggenheim di Venezia nel 2002, l'anno dopo la caduta delle Torri Gemelle e l'anno prima della scomparsa del critico d'arte. Nel tuo libro Elettronica, madre di un Sogno Umanistico, ci sono una serie di riferimenti e relazioni, ma soprattutto la cura di Pierre Restany. Qual è stata la storia di grande amicizia con Pierre e quali sono stati i primi contatti? Con Pierre Restany c'è stato un rapporto di vera grande amicizia e reciproca stima, per mia fortuna, perché lui era un 'grande', un uomo colto, geniale e ironico! Questa storia è nata per un incontro fortuito e fortunato della vita – magari ce ne fossero di più. Lo considero veramente un dono, che ha dato una svolta alla mia carriera. Ero molto giovane e avevo degli amici – Cesare Casati e Gianni Ratto – a Domus: erano gli anni '68-'69 e stavamo spesso insieme a Milano e, così, è nata l'amicizia con Pierre, che era il loro corrispondente per l'arte, il vero deus ex machina, l'intellighenzia di Domus. Pierre era un uomo molto affabile, scherzava sempre con le belle ragazze – che non gli dispiacevano affatto! Nel nostro caso, è stato un vero e proprio incontro professionale e io, che ero una giovane artista, non avrei mai sperato che si occupasse di me in maniera da riuscire, nel giro di un anno, a farmi fare una grande mostra nella galleria più importante di Milano, lo Spazio Apollinaire di Guido Lenoci, il cosiddetto centro milanese del Nouveau Realisme francese. Il vecchio Guido Lenoci era amico di Pierre e io ero un'artista trentenne, ma con idee molto chiare. Allora si poteva usare la parola d'avanguardia, che poi è scomparsa ed è diventata solo transavanguardia, questo trans sembra abbia cambiato tutto! Allora Pierre mi chiese: "Cosa faresti alla galleria di Guido Lenoci?". Io creai un 'ambiente', come allora si chiamavano le future installazioni, luogo nel quale tu entravi e partecipavi, perlomeno visivamente allo spazio, che era usato nella sua totalità e investito di una nuova funzione sensoriale. Infatti, nella galleria Apollinaire costruii uno dei più bei lavori della mia vita che purtroppo non oggi è andato perso, bisognerebbe ricostruirlo, un giorno per una mia antologica. È nata così l'opera La Strada, era il 1971. Pur essendo giovane, avevo una visione abbastanza drammatica della vita e del rapporto con la morte. Feci il pavimento in gomma piuma molto alta, una gomma piuma da 20 cm, molle, nera, dove chi entrava perdeva immediatamente l'equilibrio, si entrava e usciva con la sensazione di ondeggiare. Al centro, c'erano strisce pedonali e sagome bianche, che erano le uniche presenze, erano reattive alla luce di Wood, come nei night club. Erano delle figure, sempre di me stessa (Self portraits, ndr) ed erano in più pose, il grande egocentrismo dell'artista: figure ritagliate e svuotate da lastre di plexiglas, quindi senza corpo, solo un bordo. Si vedevano queste sagome e queste strisce pedonali, e una video proiezione in fondo alla striscia continua, come quella che scorre davanti agli occhi quando si guida in autostrada. Si entrava, ci si sentiva in mezzo a una strada e una voce continuava a recitare "La vita è tempo e memoria del tempo"; versi di un bravissimo poeta, Alberto Brivio, sul tema della strada e della vita. Ripensandoci oggi, è stata una vera intuizione: partivo allora per una strada sconosciuta senza sapere dove sarebbe finita. La morte è un tema ricorrente della tua opera? Ritorna, è fondamentale ed è un segno. Io uso segni, possibilmente semplici, segnali che arrivino allo spettatore senza che si ponga la grande domanda "Cosa diavolo voleva dire l'artista", perché questo non va bene, l'artista deve riuscire a mandare impulsi, toccare le corde del cuore e quelle visive. Fatta questa opera, ci fu una cena interessante sempre a Domus, dove conobbi un piccolo signore anziano, delizioso, con la faccia da furetto intelligente e gentile: Gio Ponti era una persona che ti colpiva. Naturalmente, fu Restany a presentarci, dicendo: "Guarda, questa ragazza, una giovane artista, allora io ti voglio affidare un lavoro" – proprio quello che si sogna che succeda – "E poi sei la nipote di Giuseppe Fiocco, figurati se non me lo fai bene". Così ho scoperto che erano molto amici – lui e il nonno – anche se in un certo senso si criticavano, perché il nonno (Giuseppe Fiocco) ce l'aveva con gli architetti e l'architettura contemporanea. Insomma, erano critici geniali, anche fra loro. E allora lui mi disse "Io devo fare Eurodomus, a Torino", una sorta di fiera del design, alla sua terza-quarta edizione: "Devo risolvere l'ingresso… Fammi tu un progetto". E fu quella volta che pensai alla mia venezianità, cercai un segno valido sia per il design sia per l'arte, un segno urbano. La mia città è una città d'acqua e così ho fatto una 'briccola' alta più di due metri. È stata la mia prima briccola artificiale e la prima intuizione di usare la luce come materia per l'arte, l'oggetto ripreso dalla realtà e reinventato diviene un artificio, che riprende a vivere mediante la luce e la trasparenza del materiale. La Bricola fu realizzata in plexiglas curvato e poi lavorato in poliestere per rendere le venature del legno, un pezzo unico con all'interno i neon e alla base un grande specchio. Per cui ho ricreato la laguna di Venezia, ribaltata e doppia come sull'acqua. Quindi hai usato i materiali ricorrenti del tuo lavoro attuale. Come vedi, dagli anni Settanta siamo ancora là: trasparenza, luce vetro e anche schermi TV. E Restany, che rapporto ha avuto con questo lavoro specifico per Eurodomus? Restany era un curatore artistico attento e verificava il progetto con l'artista, ma era sempre una mente unica con il vecchio Gio Ponti: lavoravano, collaboravano, poi c'era Cesare Casati, architetto vicedirettore di Domus; e altri assistenti che erano miei cari amici. Domus era un po' una grande famiglia; aveva anche un negozio in via Manzoni, un luogo centrale frequentatissimo, dove ci si ritrovava la sera a bersi un bicchierino di vino, che a Restany non dispiaceva assolutamente proprio come le belle donne! Tornando al tuo libro Elettronica: madre di un sogno umanistico, vedo che il tuo rapporto con Restany è durato fino alla sua morte. Mi si stringe il cuore, ma te lo racconto, perché mi sembra ancora impossibile che Pierre non ci sia più, avrebbe avuto ancora tante cose da dire. Voleva vivere la vita in pieno, goderla, non perdere nulla e quindi non si è risparmiato fisicamente, pertanto sapendo a che stadio era il suo male (soffriva di diabete, ndr), alla fine ha scelto di morire invece di farsi amputare un piede. Ci siamo incontrati a Venezia per questo libro, che ha curato interamente. Siamo andati una sera all'Angelo, per stare tranquilli senza tutta la gente che gli stava sempre attorno, a pensare al titolo; e lui già ce l'aveva in mente perché era un genio della parola e della forma ed è venuto fuori Elettronica: madre di un sogno umanistico, veramente uno specchio nella mia ricerca di una vita; legata a un mondo umanistico e a una cultura del passato; noi non potremo mai fare gli americani o gli australiani nel nostro rapporto con l'arte c'è sempre dentro una componente troppo imponente, impositiva, di cultura e di conoscenza umanistica. Però l'elettronica intesa come l'arte del nostro secolo, il video, le proiezioni e la luce sono nel DNA degli artisti della mia generazione e sono stati la mia ricerca fin dagli anni '70. Presentammo questo libro al Guggenheim l'anno dopo la caduta delle due torri e il libro con l'opera Bleeding Heart, Dripping Rainbow rappresentava la tragedia del mondo in quel momento, con la sua componente di speranza e di dolore. Il mondo aveva cambiato faccia e non sarebbe più tornato indietro, abbiamo vissuto un giorno che è valso una lunga guerra. Pierre ha parlato di questo libro e del contesto del mondo che ci circondava. Ma era molto stanco, talvolta mentre parlava gli si chiudevano gli occhi. Purtroppo, me ne sono resa conto perché la sonnolenza è segno di un aggravarsi del diabete. Poi, per un po' di tempo, si è ritirato a Parigi ed è stato ricoverato in ospedale nel mese di maggio. Il 25 maggio è nata la mia nipotina Giovanna; lui era molto legato alla mia famiglia, mi chiamò quel giovedi stesso per congratularsi e mi disse che era all'ospedale e io gli dissi: "Pierre ti prego fatti curare bene". Era così felice che disse: "Viva i Marangoni, voi si che vi riproducete e lascerete le vostre tracce… Ha telefonato a tutti gli amici di Milano che conoscevamo per dire che i Marangoni si erano riprodotti ancora". Io gli dissi: "Pierre vengo subito a trovarti". E ho provato una tale emozione che la mattina dopo sono andata a comperarmi un biglietto per Parigi, sarei partita sabato, ma il venerdì Pierre era morto. Per cui quel biglietto è stato un biglietto per andare a un funerale. E devo dirti che tutto questo è il segno di un legame profondo: una nuova vita e la sua morte! Pierre era una presenza speciale per me e io spero di essere stata una presenza e un'amicizia vera per lui. Parlami di un grande progetto che ti è venuto da Pierre. Nel 1990, la mostra Aria a Tokyo consisteva in una grande installazione video larga come una stanza intera, fatta di quintali di scarti di vetro azzurrino e cristallo e 10 monitor disposti in cerchio. Era una sorta di giardino Zen, dove al posto dei sassi vi era il vetro e nei monitor volavano i gabbiani di Venezia. Pierre amava studiare le opere degli artisti che curava e per me pensò a Tokyo. Creò il contatto con il direttore di uno dei più grandi musei, l'Hara Museum. Pierre era molto legato al mondo giapponese, aveva degli amici che lo accoglievano in maniera estremamente festosa – quando arrivava lui, quei giapponesi di solito molto compunti sembravano trasformarsi! Tosho Hara, era un giapponese di tipo raro, persona finissima, laureato negli USA, alto ed elegante. Lo incontrai l'anno prima durante un viaggio a Tokyo per l'ADI, per l'allestimento di una mostra sul design italiano. Facemmo amicizia e mi disse: "Studiami un progetto e lo facciamo assieme a Pierre". Fu così che studiai un'opera che mi pareva riassumesse il mio concetto d'installazione, un oggetto d'arte che trasporta con sé sensazioni che legano la tua storia al posto dove vai. Ho creato l'opera Aria, allestita in una stanza molto grande di 8 x 8 metri nella quale s'inscriveva un cerchio composto da una grande struttura in legno, con una dozzina di televisori, sponsorizzati dalla Sony, che venivano letteralmente sepolti da 2.000 Kg di scarti di vetro di Murano di un colore compreso tra il cristallo e l'azzurrino. Posso assicurare che sembrava di vedere la laguna di Venezia. Sui televisori, girava un video di gabbiani in volo. Il senso dell'opera era il mio viaggio a Murano: ho riportato in una cultura diversa, quella dei giardini Zen, con l'impatto e la sensazione di essere nell'acqua. La stessa organizzazione dell'opera era un giardino Zen, un cerchio perfettamernte disegnato, geometrico con questo mare di rocce ben disposte spedite rigorosamente dall'Italia. Ai lati, scendeva una sorta tenda creata con canne di vetro di Murano. Come un grande centro. Era impressionante, un oggetto lieve, ma grandissimo, con i versi dei gabbiani e luci d'acqua. Pierre scrisse un ricco testo e ne fu curatore. Restammo lì e fummo festeggiati con molti ricevimenti presso case private giapponesi, come è raro accada. E tutto questo perché Pierre era una persona che aveva uno strascico di fan, di ammiratori: quando arrivava lui, sembrava che arrivasse il giocatore di una squadra di calcio. Io non ho mai visto accadere la stessa cosa con altri critici: super presuntuosi, isolati, intenti a coltivare solo il loro ricco orticello. La materia umana di Pierre era fatta di ben altra pasta. Curava gli artisti che amava in tutto il mondo e aveva dato vita a uno dei movimenti più importanti del nostro contemporaneo: il Nouveau Realisme, una visione europea della Pop Art americana.